DI ME

“Gli passerà anche questa”.

Così i miei familiari commentarono il mio annuncio di voler diventare un musicista, anziché uno sceriffo o un mago come avevo dichiarato nella mia prima infanzia. Ora avevo nove anni, una certa pratica con pianini giocattolo, cetre magiche, armoniche a bocca e fischietti, oltre che una matura attitudine all’ascolto, formatasi prima con Modugno, i Beatles, il Dave Brubeck Quartet e poi, finalmente, Beethoven. Volevo suonare il pianoforte, come Schroeder, il personaggio dei Peanuts che sapeva far uscire dal suo strumento per bambini le note della Sonata Hammerklavier, anzi di più, volevo un pianoforte vero come quello di Kempff nel disco a 45 giri del “Chiaro di luna”.

Dopo una vana attesa che anche questa venisse derubricata come mania infantile, i miei genitori comprarono un verticale d’epoca, uno splendido mobile olandese intarsiato dell’Ottocento, che avrebbe fatto la sua figura come oggetto di arredamento nel caso ci ripensassi. “I pianisti devono esercitarsi otto ore al giorno! Che vita infernale!” diceva la mia sorella maggiore. “Almeno fai il compositore, così devi solo scrivere, fai suonare gli altri, mica devi imparare le tue musiche”.

Al fatto che il compositore e l’interprete fossero persone diverse non avevo proprio pensato. In realtà la musica volevo inventarla io, ma dal momento che per farlo dovevo imparare a suonare, cominciai a prendere lezioni di pianoforte, realizzando soltanto anni dopo che tutta la musica che mi piaceva l’avevano già scritta Beethoven, Chopin, Tchaikovsky, rubandomi l’idea. Tanto valeva fare il pianista, quello che suona cose degli altri che, però, sono in fondo anche un po’ sue. E questa è rimasta la mia mania, infantile e non solo, di tutta la vita.

Mia madre ebbe un’idea geniale, l’abbonamento alla IUC, che aveva il turno del sabato pomeriggio così non si faceva tardi la sera. Andavamo insieme, e in un anno ascoltammo dal vivo Kempff, Rubinstein, Richter, Magaloff, Menuhin, Oistrakh, il Quartetto Végh, il clavicembalista George Malcolm e una sera, eccezionalmente, a S.Cecilia la Filarmonica di Leningrado diretta da Evgenji Mravinsky. Quell’anno mi ha segnato per sempre.

La mia maestra di pianoforte si chiamava Lydia, era stata allieva di Casella, una signora toscana sulla cinquantina, esigente e simpatica. Non so come riuscì a farmi suonare subito, niente solfeggio o cadute o martelletti o altra roba simile. Si chiamava “Metodo globale”. Funzionò, perché in pochi mesi suonavo il mio primo Beethoven senza problemi. Mi diede lezioni per altri quattro anni, poi mi affidò a un maestro importante, Rodolfo Caporali, che mi guidò con i suoi insegnamenti preziosi fino al diploma e oltre, con i primi concorsi e i primi concerti. A questi maestri, veri artisti, sarò grato per sempre.

Nel frattempo non avevo smesso di coltivare la composizione, prima con Attilio Poleggi, poi con Giuseppe Savagnone che mi faceva fare esercizi di contrappunto e parallelamente studiare la dodecafonia sul manuale di Krenek. Un vero anticonformista. Le nostre lezioni non finivano mai, erano incontri nella bottega di un artista, che dopo aver esaminato i miei compiti mi mostrava le cose alle quali stava lavorando. Tutto questo mi prendeva a tal punto che per qualche ora dimenticavo di essere un pianista, uno che suona le cose degli altri. Volevo scrivere dei pezzi tutti miei, ed ero in grado di farlo. Quando però tornavo al mio strumento con le Variazioni Paganini di Brahms, sentivo che questa compagnia era troppo irresistibile, e molto più interessante di quella di me stesso. Non ho mai risolto questo problema, nemmeno quando molto tempo dopo ripresi gli studi con Aldo Clementi, che invitai al mio secondo concerto a S. Cecilia con l’Orchestra dell’Accademia, nel quinto Concerto di Prokofiev. Fu allora che realizzai che ero diventato inguaribilmente un pianista, e il palcoscenico, con tutte le ansie che più o meno segretamente dovesse procurarmi, era la mia vita.

Sul mio cammino ho avuto la fortuna di incontrare e frequentare persone straordinarie.

Franco Ferrara, forse il più grande direttore d’orchestra mai esistito, come qualcuno ha detto. Andavo a trovarlo nella sua casa a piazza Cavour tra un concerto e l’altro e mi facevo ascoltare. I suoi consigli erano semplici, diretti e profondi. Per esempio, quando si esegue una fuga di Bach non bisogna far prevalere la voce che suona il tema sulle altre, ma farle sentire tutte con timbri diversi. E una sera, quando preparavo il concerto di Schumann per il mio diploma, mi propose di leggerlo insieme a due pianoforti. Dopo aver suonato con tanti direttori d’orchestra, anche grandi e famosi, quella rimane l’esperienza più indimenticabile che abbia mai avuto.

Francesco Siciliani, senza il quale, come ha scritto Lorin Maazel, “l’Europa musicale degli ultimi cinquant’anni sarebbe stata impensabile”. Un genio dietro le quinte. Avevo la fortuna di poterlo andare a trovare la sera tardi nella sua casa sul Lungotevere, e suonavo per lui. Altre volte veniva ad ascoltarmi a casa, e gli offrivo il suo aperitivo preferito, noccioline e succo di pomodoro. Ogni suo commento, a volte pronunciato o altre volte lasciato intendere, apriva un mondo. Era l’uomo che aveva scoperto la Callas, Maazel, Prêtre e moltissimi altri grandi artisti, non limitandosi a scritturarli quando era direttore artistico della Scala o di S. Cecilia, ma intervenendo sulla loro formazione, per nulla inibito dalla fama che avevano già raggiunto. Una volta gli feci sentire il primo concerto di Brahms e mi disse: “non dimentichi mai che questa musica ha sempre un fondo limaccioso”. Da allora non ho mai smesso di dedicare particolare attenzione ai bassi, perchè restino sempre presenti e incisivi, anche nelle opere più delicate come gli ultimi Intermezzi. E quando ebbi il primo incarico in conservatorio: “si ricordi che il vero maestro non fa mai lezione, si siede accanto all’allievo e impara con lui”.

Una sera mi presentò ad Alexis Weissenberg, che aveva appena eseguito a S.Cecilia il terzo di Rachmaninov con Prêtre. Qualche mese dopo ero a Parigi, dove mi dedicò tre pomeriggi ascoltando tutto il mio repertorio. Avevo ventitrè anni e molte insicurezze, e mi disse: “Lei è nato per fare il pianista solista. Faccia anche musica da camera, naturalmente”.

Fu uno choc, la mia vita professionale cambiò per sempre.

Da allora per trent’anni ci siamo frequentati, tra un impegno e l’altro di tutti e due. È stato un maestro amico, mi ha ascoltato ogni volta che avevo un pezzo nuovo da eseguire in concerto, praticamente tutto il mio repertorio. Ci vedevamo a casa sua, Parigi o Lucerna o più tardi Lugano, oppure alla Scala o in qualunque sala stesse facendo delle prove, e mi dedicava il tempo che poteva sottrarre alle sue pause. I suoi consigli erano quelli di un grande concertista e avevano un effetto fulmineo, come un potere magico di eliminare, più che risolvere, qualunque problema. Solo dopo dieci anni passammo al “tu”, e in quell’occasione mi regalò la partitura della sua Sonate en état de jazz, e da quel momento ho cominciato a dedicarmi alla sua musica, leggera, profonda e geniale.

Nel frattempo facevo concerti, un po’ dappertutto in Italia e in Europa, recital o con orchestra, a volte con ritmi serrati, persino quattordici in nove giorni, altre volte con lunghi periodi di inattività che mi rendevano impaziente. Le mie occasioni preferite erano quelle con i direttori d’orchestra, per lo più sempre diversi, che rendevano lo stesso pezzo ogni volta nuovo. Il primo con il quale suonai fu Gavazzeni, che amava lavorare con i giovani e mi prese con sé quando avevo ventiquattro anni facendomi tra l’altro inaugurare con lui la stagione del S. Carlo. La sua stima e la sua amicizia mi rendevano un privilegiato, anche molto invidiato, cosa che ho scoperto solo molto tempo dopo. Ho imparato moltissimo da lui. Suonavamo il primo concerto di Mendelssohn, e all’orchestra troppo pesante gridava: “aria sotto le note!”. Già, aria sotto le note, e non vale solo per Mendelssohn. Me ne sono ricordato dedicandomi alla Rapsodia in blue di Gershwin.

Questa la suonai per la prima volta in una città dell’Andalusia, in una Plaza de Toros. Fu un’esperienza un po’ surreale e inquietante, perché il “dietro le quinte” era il camerino dove si preparavano i toreri, con vari amuleti, ex voto e quanto tornasse utile a chi affronti una situazione pericolosa, forse mortale.

Un’esperienza che ha avuto l’effetto di ridimensionare il mio nervosismo prima di un concerto. In fondo, male che vada, la vita non sembra in gioco.

Sono stato molte altre volte in Spagna, una quarantina di città diverse, vivendo situazioni ora divertenti ora impreviste, al punto che se ne potrebbe trarre un romanzo picaresco. Non ne vale la pena, ma non posso dimenticare la sera del secondo di Rachmaninov a Valencia, e la caraffa di sangria che il caldo estivo fece vuotare a me e mia moglie, rendendo imbarazzante la nostra presenza alla seconda parte del concerto per riguardo al direttore d’orchestra. Fu un problema anche camminare  per raggiungere l’albergo. O quella volta che il mio agente mi telefonò chiedendomi di precipitarmi a Madrid il giorno dopo per sostituire una pianista totalmente inadeguata in un concerto alla presenza del re Juan Carlos e della regina Sofia, che mi aveva già ascoltato qualche mese prima. Andai, nonostante non avessi toccato il pianoforte da quasi una settimana, e fu anche un successo, forse per compensare quell’altra volta in Galizia, quando ero pronto a suonare il secondo di Chopin e il direttore d’orchestra aveva le parti del primo, per un disguido nel contratto. Mi chiese se potevo cambiare programma, come se si trattasse di un vestito, risposi di no e il concerto saltò.

La settimana dopo, tornato in Italia, mi chiamarono per chiedermi di recuperare il concerto tre giorni dopo a Saragozza con lo stesso direttore. Andai, e fu una di quelle serate stupende nelle quali tutto funziona, ci si sente in forma, la sala ha un’acustica stupenda, il pianoforte è fantastico e il successo è pieno. Si ricordano tutte, perché sono convinto che ogni artista potrebbe contarle sulla punta delle dita.

Viaggiare per fare un concerto o una tournée è comunque la cosa più divertente che personalmente abbia vissuto. Ogni circostanza, anche tra le più insopportabilmente stressanti, mi ha lasciato un ricordo e un insegnamento. Visitare splendide capitali senza l’obbligo di essere turista, liberi di passare un pomeriggio in un museo oppure dormire tutto il tempo, senza sentirsi obbligati a far fruttare il denaro speso per la vacanza, è una delle fortune della vita. Si conoscono anche luoghi e persone spiacevoli, ma sempre nasce un nuovo contatto che arricchisce, che sia il direttore d’orchestra o l’accordatore, o il pubblico, che a volte si comporta come un bambino svogliato ed altre come un amante appassionata, e non c’è modo di prevederlo.

E poi c’è lo studio, il lavoro segreto e paziente di ogni giorno, le temute otto ore di mia sorella, che in verità si riducono a molto meno ma rimangono un impegno costante che non conosce pause né vacanze. E quel bisogno sempre crescente di suonare, suonare ancora, qualcosa di più che respirare, perché il respiro si può trattenere, piuttosto il battito cardiaco, che non si può arrestare.

L’insegnamento, certo, è importante, perché tutti noi che suoniamo abbiamo tante cose da trasmettere e da raccontare, e possiamo essere anelli di una catena preziosa. Come disse Alexis Weissenberg nel film I like music: non si vive per la musica, si vive nella musica. E ai miei allievi che si sentono inadeguati quando affrontano il grande repertorio dopo aver ascoltato le esecuzioni dei grandi interpreti, dico che ci sono le stelle grandi e quelle piccole, ma tutte brillano della stessa luce che ci dà gioia.

L’importante è che sia la luce giusta.

Alessandro

VISUAL IDENTITY PROJECT by AMUSART®
CONCEPT & ART DIRECTION:
Tiziana Tentoni

Website: Ecograph
Clip: Riccardo Acerbi
Photo shooting: Jesús López B.

www.amusart.com

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